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05 Maggio 2021

Covid: fondamentale continuare a indossare la mascherina per i vaccinati? Cosa dicono gli studi

Le prime valutazioni sulla base dei primi dati sia per quanto riguarda l’uso delle mascherine che la durata dell’immunizzazione data dal vaccino


Sebbene alcuni vaccini diano una protezione alta già dopo la prima dose, nessuno raggiunge il 100%. Sono i primi risultati sull'efficacia dei vaccini anti Covid-19 nel proteggere dal contagio, oltre che dalla malattia. In base ai dati emersi, gli esperti invitano chi si è vaccinato a continuare a usare la mascherina per evitare nuovi contagi. "La vaccinazione non elimina completamente il rischio di infezione - scrivono i ricercatori - e pertanto i dispositivi di protezione individuale e i test diagnostici si dovranno continuare a utilizzare fino a quando la prevalenza del virus SarsCoV2 sarà così bassa da ridurre il rischio di trasmissione". 

Tutti gli studi sono britannici e uno dei primi, pubblicato sulla rivista The Lancet e condotto da National Institute for Health Research e Università di Oxford su più di 23.000 medici e infermieri, indica che il vaccino della Pfizer/Biontech ha un'efficacia nel prevenire il contagio del 70% a 21 giorni dalla prima dose e delll'85% a una settimana dalla seconda dose. Un altro studio, di Università di Oxford e Ufficio britannico di Statistica, indica che dopo una dose del vaccino di AstraZeneca o di Pfizer/Biontech il rischio di contrarre l'infezione da SarsCoV2 è ridotto di circa due terzi.  

Sono dati che dimostrano come anche dopo la vaccinazione anti Covid continui a esistere, anche se in misura minore, il rischio di contrarre e trasmettere l'infezione”, osserva il virologo Francesco Broccolo, dell'Università di Milano Bicocca. 

In merito alle varianti, secondo uno studio coordinato dal Centro europeo per il controllo delle malattie, condotto con sette paesi europei (Cipro, Estonia, Finlandia, Irlanda, Italia, Lussemburgo e Portogallo, è emerso che le tre principali del coronavirus SarsCoV2, finora emerse, aumentano il rischio di ricovero e di terapia intensiva, raddoppiandolo o triplicandolo a seconda dei casi, con i risultati peggiori osservati con la variante sudafricana. L'analisi è stata condotta a cavallo tra il 2020 e 2021 su 19.995 casi di Covid con varianti (oltre alla sudafricana, sono state considerate la B.1.1.7, nota come inglese, e la P.1, nota come brasiliana), e 3348 casi senza varianti. Dei 3,2 milioni di casi riportati dai Paesi durante lo studio, quelli con la variante inglese sono stati i più frequenti (82.3%), seguiti da quella sudafricana (1.9%) e brasiliana (1.5%). È cosi emerso che rispetto alle persone contagiate dal virus senza variante, il rischio di ricovero con quella inglese era 1,7 volte più alto, con quella sudafricana 3,6 volte maggiore e con quella brasiliana 2,6 volte maggiore. Analizzando l'impatto delle varianti stratificati per fasce d'età, lo studio mostra che con la variante inglese le fasce tra i 20 e 39 anni e quella tra i 40 e 59 anni avevano rispettivamente un rischio di 3 volte e 2,3 volte maggiore di ricovero, mentre quello di terapia intensiva o morte non è variato molto.

Riguardo all'immunizzazione che creano gli anticorpi dati dai vaccini, sono ancora molti gli studi in corso per verificare la durata dell'immunità.  Quella data dal vaccino di Moderna potrebbe durare circa 7-8 mesi, in modo simile a quanto avviene per l'influenza, rendendo necessario un nuovo richiamo entro 12 mesi dalla vaccinazione. Lo spiega la stessa azienda nei dati presentati nel suo Vaccine Day la scorsa settimana e in uno studio dell'Università del Nuovo Galles pubblicato sul sito medrXiv, dove vengono messe le ricerche ancora non validate dalla comunità scientifica. Secondo i suoi modelli, l'immunoprotezione dall'infezione può indebolirsi nel tempo man mano che cala il livello di anticorpi neutralizzanti e quindi un richiamo potrebbe servire entro un anno dalla seconda dose.

Tuttavia, spiega l'azienda, la protezione dalla forma grave dell'infezione potrebbe durare più a lungo.

Sulla base dei dati finora disponibili sugli anticorpi neutralizzanti, secondo lo studio, la protezione potrebbe essere simile a quella vista contro le infezioni da influenza e coronavirus stagionali, dove è possibile una re-infezione dopo un anno dalla prima infezione ma in forma più lieve.  

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