Il rapporto tra giorni lavorativi e dichiarazioni del contribuente sul numero di sedute dedicate al paziente ed il raffronto con le “poche” fatture emesse, peraltro troppo generiche, hanno indotto l’Ufficio delle Entrate di Genova ad emettere un avviso di accertamento nei confronti di un dentista con studio nel capoluogo ligure che ricorreva in Commissione Tributaria e successivamente in Cassazione. Dentista che contestava l’accertamento induttivo ed il metodo adottato per “ricostruire” il volume d'affari, ritenendo –si legge nella sentenza delle Cassazione (290 del 5 febbraio 2019)- “non provate le gravi incongruenze tra ricavi dichiarati e quelli stimati dall'Amministrazione finanziaria”.
Cassazione che, invece, ricorda come “grava sul contribuente l'onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l'apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo”.
Sul punto è stato specificato che “l'Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l'antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell' art. 39, comma 2, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente, utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo sul contribuente l'onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni”. “Gli elementi assunti a fonte di presunzione –continua la sentenza- peraltro non devono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su di un elemento unico, purchè preciso e grave, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata”.
Secondo quanto riportato nella sentenza, le fatture emesse, per tutelare la riservatezza dei dati nei confronti del paziente, non erano dettagliate e quindi, secondo il dentista, l’Amministrazione finanziaria non aveva gli estremi per rivelare incongruenze. Cassazione che legittima, invece, la bontà del lavoro di verifica ricordando come “l'ufficio abbia sufficientemente motivato, specificando gli indici di inattendibilitàdei dati relativi ad alcune poste di bilancio e dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, il suo operato è assistito da presunzione di legittimità̀, nel senso che null'altro l'ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte”. Probabilmente la “genericità” delle fatture messe anche impedito al dentista di confutare con dati precisi le criticità sollevate durante l’accertamento.
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