L'utilizzo di biomateriali è una pratica comune per "ingegnerizzare" il coagulo ematico che è alla base della neoformazione ossea, aumentandone la stabilità dimensionale durante il periodo di guarigione. Sono numerose le possibilità a disposizione del clinico: oltre all'osso autologo, che per molto tempo è stato considerato il gold standard, sono disponibili l'osso omologo nelle sue varie formulazioni, i materiali di origine animale (xenoinnesti) e quelli di sintesi (alloplastici), che completano il panorama delle scelte disponibili.
Da una recente indagine di mercato è emerso che in Italia il 53% degli intervistati, nella propria pratica clinica, preferisce utilizzare xenoinnesti, il 22% materiali sintetici, il 6% osso autologo mentre, anche per problematiche legislative, nessuno utilizza osso omologo (a completare il campione un 19% che non utilizza biomateriali). Il netto predominio dei materiali di origine animale e sintetica è dovuto alla loro disponibilità illimitata ed alla minore morbidità per il paziente rispetto all'uso dell'osso autologo: gli xenoinnesti, in particolare, sono stati forse i materiali più estensivamente studiati negli anni fornendo risultati predicibili in termini di formazione di nuovo osso, pur in totale assenza di capacità osteoinduttiva.
Bisogna tuttavia rilevare come due delle quattro classi di materiali (xenoinnesti ed osso omologo) siano correlabili ad un rischio molto remoto (ma pur sempre esistente) di trasmissione di infezioni crociate. Numerose pubblicazioni negli ultimi 15 anni suggeriscono che gli attuali significativi limiti dello screening per la presenza di prioni, unitamente al lungo periodo di latenza prima della comparsa di sintomi nel paziente infettato, dovrebbero far riflettere sull'opportunità di usare biomateriali potenzialmente pericolosi (Kim et al., Clin Implant Dent Relat Res. 2016). Inoltre, nell'attuale società multietnica e multiculturale, è sempre più frequente trattare dei pazienti che, per motivazioni religiose o di stile di vita (vegetariani, vegani), rifiutano l'utilizzo di biomateriali di origine animale.
Con questi presupposti, diventa un tema di ricerca interessante la comparazione dei risultati clinici ottenibili utilizzando gli xenoinnesti con quelli dei materiali sintetici, che per definizione non presentano rischi di sorta dal punto di vista biologico.
E' recentemente uscito sull'autorevole rivista BioMed Research International (impact factor 2.476) un trial clinico randomizzato controllato multicentrico di un gruppo di ricercatori italiani che compara i risultati clinici, istologici ed istomorfometrici dell'osso bovino deproteinizzato con quelli di una nanoidrossiapatite sinterizzata nel rialzo di seno mascellare. Nello studio, condotto con disegno split-mouth, 26 pazienti consecutivi sono stati sottoposti a rialzo di seno bilaterale con approccio laterale: in ogni paziente uno dei due interventi è stato eseguito innestando dell'osso bovino deproteinizzato, l'altro utilizzando nanoidrossiapatite sinterizzata (la scelta del materiale è stata randomizzata). Dopo sei mesi di guarigione sono stati inseriti degli impianti nell'osso rigenerato prelevando delle biopsie del tessuto neoformato da entrambi i lati. In totale sono state prelevate 52 biopsie (26 per gruppo) ed inseriti 107 impianti: le analisi istomorfometriche hanno dimostrato l'assenza di differenze statisticamente significative tra i due biomateriali sia in termini di percentuale di osso vitale neoformato, sia di biomateriale residuo. La percentuale di sopravvivenza implantare ad un anno risulta identica nei due gruppi (96.4%). Dai dati di questa ricerca emerge che la nanoidrossiapatite sinterizzata può essere considerata un'alternativa affidabile all'osso bovino deproteinizzato nel rialzo di seno mascellare, accoppiando ai medesimi risultati clinici e istologici la sicurezza dei materiali di sintesi.
A cura di: Redazione
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