È ormai assodato come i compositi siano considerati i materiali gold standard per l’esecuzione di restauri diretti dei settori anteriori e posteriori. Il motivo è da cercarsi sicuramente nello sfruttamento delle tecniche adesive, che consentono preparazioni cavitarie meno invasive, oltre alle proprietà biomeccaniche e fisiche in continua evoluzione dato il continuo sviluppo dei monomeri e dei filler di cui i compositi sono costituiti.
Ovviamente, anche l’integrazione estetica ha giocato un ruolo fondamentale nella loro affermazione clinica. Resta tuttavia da considerare che i restauri adesivi richiedono il rispetto di rigidi e precisi protocolli per poter fornire performance cliniche soddisfacenti e longeve, oltre che risultati estetici realmente “mimetici”.
Già, il mimetismo: da sempre si è cercato un composito che fosse in grado di integrarsi alle caratteristiche cromatiche del dente. Ottimi risultati si sono potuti ottenere con l’impiego di masse composite da stratificare che presentassero caratteristiche di opacità e translucenza diverse, in modo da mimare le proprietà ottiche di smalto e dentina.
Recentemente, sull’onda della continua ricerca della semplificazione dei protocolli restaurativi, sono state introdotte in commercio resine composite monomassa e monocromatiche che – grazie a un effetto scattering derivante da forma, dimensione e distribuzione dei filler, nanoibridi – consentono una buona integrazione cromatica indipendentemente dalla tinta dell’elemento da restaurare. Questi materiali sfruttano la presenza del substrato dentale nel quale vengono incastonati per mimetizzarsi il più possibile nella struttura dentaria. I compositi single-shade si fanno infatti attraversare dalla luce, che va quindi a rifrangersi su smalto e dentina che costituiscono le pareti cavitarie. Il risultato finale è un reale effetto mimetico, in cui il composito risulta della tinta del dente su cui è stato applicato, sia esso un A2 piuttosto che un C3, sempre utilizzando l’unica massa cromatica a disposizione.
Di seguito si presentano due casi che mostrano l’utilizzo e il risultato finale ottenuto con Venus Diamond One (Kulzer) nel restauro di elementi posteriori con caratteristiche cromatiche differenti.
Caso 1
Il paziente presenta un vecchio restauro in amalgama fratturato nella sua porzione distale e infiltrato nella sua porzione vestibolo-mesiale (fig. 1).
Fig. 1
Cavità mesio-occluso-distale ultimata con matrici sezionali posizionate (fig. 2).
Fig. 2
Ricostruzione delle pareti interprossimali con Venus Diamond ONE (Kulzer) (fig. 3).
Fig. 3
Applicazione di uno strato di Venus Diamond Flow (Kulzer) di circa 1 mm sulle pareti cavitarie (fig. 4).
Fig. 4
Completamento del restauro sempre con la sola applicazione di Venus Diamond ONE, stratificato con due masse orizzontali dello spessore uguale o inferiore a 2 mm. Dopo polimerizzazione sotto gel di glicerina, si procede con la rifinitura e la lucidatura con gommini siliconi ad abrasività decrescente (fig. 5).
Fig. 5
Visione occlusale del restauro prima della rimozione della diga di gomma (fig. 6).
Fig. 6
Risultato clinico ottenuto, controllo a due settimane (fig. 7).
Fig. 7
Caso clinico 2
Sostituzione di un restauro in amalgama con segni clinici di infiltrazione marginale secondaria (fig. 8).
Fig. 8
Cavità ultimata con matrici sezionali posizionate prima della procedura adesiva, effettuata con adesivo universale iBond Universal (fig. 9).
Fig. 9
Esecuzione delle pareti interprossimali con Venus Diamond One (fig. 10).
Fig. 10
Utilizzo di Venus Flow Baseliner al fine di creare uno strato opaco sulla base cavitaria che limiti la trasmissione ottica delle discromie dentali legate alla presenza dell’amalgama e la formazione di dentina terziaria di reazione (fig. 11).
Fig. 11
Strato orizzontale di Venus Diamond One dello spessore di 2 mm (fig. 12).
Fig. 12
Completamento dell’anatomia occlusale tramite stratificazione di un’ultima massa di Venus Diamond One e posizionamento di pigmenti Choco nei solchi occlusali (fig. 13).
Fig. 13
Visione occlusale alla rimozione della diga di gomma (fig. 14).
Fig. 14
Controllo a una settimana (fig. 15).
Fig. 15
Con il contributo non condizionante di Kulzer
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