Nei giorni scorsi la presidente LEAD Laura Codegoni, aveva sollecitato il presidente SIdP Claudio Gatti sollevando alcuni dubbi sulle avvertenza avanzate dalla Società Scientifica di Parodontologia in merito all'utilizzo del laser nella cura della malattia parodontale.
Ora il dott. Gatti le risponde attraverso una lettera inviata anche ad Odontoaitria33 che vi proponiamo integralmente.
In Italia la parodontite colpisce almeno il 40% della popolazione, con gravi problemi di natura estetica-funzionale e profonde interrelazioni con gravi malattie sistemiche. La ricerca clinica in Parodontologia ha ampiamente dimostrato con studi clinici in tutto il mondo, e non attraverso opinioni di esperti, che la terapia convenzionale (motivazione e istruzioni all'igiene orale, strumentazione sopra e sottogengivale con curettes e ultrasuoni) è enormemente efficace per arrestare la malattia e salvare i denti nel lungo termine, con costi contenuti e grande successo clinico dopo oltre 30 anni di osservazione".
Il laser in Parodontologia, ricorda, "è stato oggetto di studio come possibile strumento in grado di migliorare la terapia non chirurgica, al posto degli strumenti tradizionali o in aggiunta ad essi. Da almeno 10 anni studi clinici indipendenti fatti nelle migliori università internazionali dimostrano che il laser non migliora la terapia convenzionale e che non funziona meglio di curettes e ultrasuoni. Tutto questo misurato con metodo scientifico e tutto questo indipendente dalle opinioni degli esperti, che nella moderna letteratura scientifica hanno un'importanza marginale rispetto ai dati.
La SIdP ha profondo rispetto per chi studia seriamente l'applicazione del laser in odontoiatria, come la SILO o la LEAD. Riteniamo però che prima di paventare vantaggi nel campo del trattamento parodontale bisognerebbe conoscere bene la letteratura del settore (che evidentemente è pubblicata sulle riviste internazionali di Parodontologia) e che dimostra semplicemente che il laser non è uno strumento necessario nel curare la parodontite.
Nella tua lettera scrivi " Evoluzione, in campo medico, vuol dire "apertura", non arroccamento su proprie preconcette posizioni...". Converrai che è molto complesso essere aperti a "novità" come queste che non hanno solida evidenza scientifica alle spalle. Mi permetterai però di correggere la tua frase, e di suggerti che evoluzione in medicina non è rimanere abbagliati dal lampo del nuovo ma avere la forza di misurare i benefici clinici finali per capire quel che serve davvero per curare i nostri pazienti.
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