C’è un argomento che da anni suscita dibattiti e controversie in molta parte del mondo, tocca questioni delicate quali la salute e la libertà di scelta, riguarda milioni di cittadini, ma da noi è pressoché sconosciuto. Parliamo di acqua potabile e dell’abitudine, largamente diffusa in America e Australia, di aggiungere fluoro nei sistemi pubblici di distribuzione. Una pubblicità in voga qualche tempo fa nel nostro paese sottolineava l’importanza del dentifricio al fluoro per tutti coloro che “non vivono in Colorado”, dove invece non sarebbe necessario poiché le acque ne sono naturalmente ricche. Si trattava allora di paste dentifricie e non di acqua potabile, però il richiamo al Colorado è significativo e per nulla casuale. Anzi, la nostra storia inizia proprio lì, precisamente a Pikes Peak Mountain, nei primi anni del secolo scorso. Il dottor Frederik McKay, giovane dentista arrivato dall’East Coast fresco di laurea conseguita alla Dental School University della Pennsylvania, forse perché nuovo della zona si meravigliò di qualcosa che agli altri sembrava del tutto normale: un gran numero di pazienti aveva i denti pieni di macchie. Alcune bianche, alcune scure, rappresentavano soprattutto un inconveniente estetico, ma in certi casi più gravi anche lo smalto ne era intaccato. Un’azione di sensibilizzazione e coinvolgimento di altri odontoiatri portò a una ricerca, commissionata dalla Dental Society ed estesa a 2945 bambini in età scolare nell’area di Colorado Springs. Risultò che l’87,5 per cento di loro presentava qualche tipo di macchia o screziatura e tutti provenivano dalla zona di Pikes Peak. Era il 1909 e si cominciò allora a chiamare “Colorado stains” - macchie del Colorado, quel difetto che oggi è conosciuto come fluorosi. Ma c’era un’altra stranezza, stavolta di segno positivo: i bambini esaminati avevano denti particolarmente sani, con una ridottissima presenza di carie. Le ricerche durarono oltre vent’anni, prima che si arrivasse alla conclusione che la causa delle Colorado stains, così come del basso numero di carie, era l’alta concentrazione di fluoro nelle acque potabili della zona.
ALLA RICERCA DELLA GIUSTA DOSE
Fin dall’inizio l’intera faccenda è stata dunque connotata da due elementi opposti: come conciliare la benefica azione dei composti fluorati nel combattere la carie con la necessità di evitare la fluorosi o altre possibili conseguenze negative? Si trattava semplicemente di individuare la dose giusta oppure il rischio era comunque troppo alto? La controversia, iniziata immediatamente, si è trascinata fino ai giorni nostri, ma non ha impedito che l’aggiunta di fluoro agli impianti di distribuzione delle acque sia diventata comune negli Stati Uniti e in molti altri Paesi. Iniziò nel gennaio 1945 la piccola comunità di Grand Rapids, nel Michigan, ma la pratica si allargò a macchia d’olio non appena le prime rilevazioni evidenziarono una diminuzione della carie tra gli abitanti.
CHE COSA SUCCEDE IN GIRO PER IL MONDO
Oggi due statunitensi su tre ricevono dal rubinetto acqua fluorurata e lo stesso vale per il quaranta per cento dei canadesi, quasi metà dei brasiliani, il settanta per cento dei cileni e la quasi totalità degli australiani. Nella vecchia Europa la situazione è completamente diversa: con l’eccezione dell’Irlanda e di un piccolo numero di città inglesi si è ritenuto opportuno impedire la fluorurazione, a volte dopo programmi sperimentali che però non hanno avuto seguito. E in Italia? L’opinione di Laura Strohmenger, professoressa di odontoiatria all’Università degli Studi di Milano, primaria di odontostomatologia all’ospedale San Paolo di Milano e figura di spicco nell’ambito dell’odontoiatria di comunità, è molto netta: “in Italia non si farà mai. E comunque sarebbe perfettamente inutile: gli italiani bevono acqua minerale e non quella del rubinetto...”.
Attualmente, per poter essere immesse negli acquedotti, le acque devono avere un contenuto naturale di fluoro non superiore a 1,5 milligrammi al litro. Per le acque minerali, un valore limite non esiste, tuttavia per concentrazioni maggiori l’etichetta deve riportare l’indicazione “non ne è opportuno il consumo regolare da parte dei lattanti e dei bambini di età inferiore ai sette anni”.
IL FRONTE ANTI-FLUOROMa come mai? Il timore è limitato a qualche macchia sullo smalto (cosa che per i decidui non dovrebbe essere eccessivamente allarmante) oppure c’è dell’altro? Il fronte anti-fluoro è molto variegato e comprende un gran numero di persone ostili in linea di principio all’uso eccessivo della chimica in ciò che ingeriamo quotidianamente. Vengono spesso citati studi effettuati su animali da laboratorio, che mostrerebbero danni ai cromosomi e conseguenze a livello renale e cerebrale, per esempio un aumento nella formazione di placche betaamiloidi, tipiche del morbo di Alzheimer. In dosi elevate, i composti fluorurati darebbero problemi anche al sistema riproduttivo e ostacolerebbero il corretto funzionamento della tiroide. Si aggiungano indebolimento delle ossa e abbassamento delle difese immunitarie e sembrerà del tutto folle insistere in una pratica tanto pericolosa. Ma tutto dipende dalle dosi. Chi sostiene la fluorurazione delle acque potabili replica che molte sostanze che assumiamo comunemente possono essere velenose in alte quantità, ma nelle percentuali utilizzate non si corre nessun rischio, mentre risulta evidente il beneficio in termini di salute dentale. E bisogna dire che la maggior parte delle ricerche sembra dar loro ragione: oltre a non rilevare, a livello statistico, nessuna maggiore insorgenza delle patologie attribuite al fluoro, la riduzione della carie è evidente e notevole. Un caso significativo è costituito dal Quebec dove, a differenza del resto del Canada, la popolazione si è sempre opposta alla fluorurazione con il risultato che i bambini di quella regione svilupperebbero la carie due volte più spesso dei coetanei delle altre zone del paese.
In attesa che le indagini scientifiche arrivino a conclusioni incontrovertibili sui danni e sui benefici del fluoro, gli oppositori usano un argomento importante: non è corretto ledere la libertà di scelta dei cittadini, che non possono essere costretti ad assumere medicamenti o additivi non desiderati. E qui il discorso si fa molto più ampio e si accompagna, per esempio, alle polemiche sull’uso sistematico dei pesticidi o degli ogm in agricoltura.
ARGOMENTI ETICI E AFFARIInevitabilmente, il dibattito è viziato anche da considerazioni economiche che come sempre, pur non essendo a prima vista evidenti, hanno un enorme peso su scelte che dovrebbero invece essere dettate dall’interesse prevalente della salute. A questo proposito può risultare illuminante scoprire che una delle aziende che vendono acido idrofluorosilicico all’Irlanda è di proprietà del governo finlandese che, a casa propria, ha giudicato pericolosa la fluorurazione delle acque potabili e ne ha interrotto il programma fin dal 1992. In Italia, come si è visto, il problema non si è mai posto, ma non si creda di esserne completamente al riparo per il solo fatto di essere leader mondiale nel consumo di acque minerali. Infatti, in questi ultimi tempi, si sta prendendo in considerazione l’aggiunta di composti al fluoro anche nelle bottiglie.
È vero che questo accade ai nostri antipodi, in Australia, ma l’idea è nata proprio in ragione della crescita dell’importanza industriale delle acque minerali. È un settore in espansione in tutto il mondo e quindi un’arena in cui si danno battaglia le numerose compagnie che cercano di fare profitti e acquisire quote di mercato, anche cercando di differenziare e arricchire l’offerta. È in quest’ambito che la Food Standards Australia New Zealand si è vista sottoporre la richiesta per potere, per la prima volta, aggiungere fluoro nell’acqua in bottiglia. Nell’attesa di una decisione in tal senso, le polemiche sono tornate a divampare. In Australia si vendono ogni anno 370 milioni di litri di acqua minerale. In Italia trenta volte di più e forse anche da noi qualcuno potrebbe fiutare l’affare.
GdO 2006; 14
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