Legame tra CVD e malattie infiammatori: ruolo degli antinfiammatori nel trattamento del paziente con CVD
Sette milioni di europei hanno malattie infiammatorie croniche, spesso con sintomi dolorosi invalidanti, e una qualità di vita fortemente compromessa ed è sempre maggiore il numero di queste malattie legate anche a stile di vita (fumo, sedentarietà, alimentazione) e a fattori ambientali, tra i quali l’inquinamento, che attivano la risposta infiammatoria; il link tra sistema cardiovascolare e infiammazione è molto stretto ed è importante tenerne conto. L’infiammazione è un key driver dell’aterosclerosi e delle sue complicanze, essendo alla base del danno endoteliale e della formazione ed evoluzione della placca aterosclerotica.
Stili di vita sbagliati (alimentazione, fumo, sedentarietà) e infiammazione possono determinare un danno infiammatorio a carico della circolazione arteriosa generando malattia arteriosa periferica - PAD: se al burden infiammatorio seguono lo stress ossidativo, il deposito di lipidi, la disfunzione vascolare, il diabete, la trombosi e tutti i fenomeni protrombotici, si arriva a generare il danno vascolare in aggiunta alla PAD (Bonaca MP, et al. Circ Res, 2021). In tutto questo processo sono determinanti anche fattori genetici cioè il pattern genetico di alcune malattie o alcuni fattori che possono peggiorare la PAD (per es. l’iperomocisteinemia, la proteina C, la proteina S, ma anche le ipercolesterolemie eterozigoti od omozigoti, la mutazione del fattore 5 di Leyden): tutti fattori protrombotici da indagare in quanto coinvolti sia nella genesi e nella progressione della placca sia nel rischio di eventi cardio-cerebrovascolari di origine misconosciuta.
L’esame coronarografico per un cardiologo è il gold standard per valutare il burden aterosclerotico a livello dei vasi arteriosi periferici: il danno infiammatorio sulla circolazione arteriosa può essere evidenziato a 360° con tecniche di imaging che permettono di identificare le lesioni. La TC coronarica, invece, è un esame meno invasivo rispetto alla coronarografia ma permette di valutare la funzionalità dei vasi. Il compito del medico è di fare prevenzione valutando anche a livello subclinico l’eventuale presenza di patologie che possono evolvere in compromissione clinica (per es. mediante un ecodoppler arterioso dei tronchi sovraortici, delle arterie femorali, dell’aorta addominale, o con una TC coronarica), specie nei pazienti con burden infiammatorio molto importante. Protagoniste del burden infiammatorio sono le citochine che svolgono un ruolo molto importante nello sviluppo e nella progressione dell’infiammazione. Le citochine sono proteine mediatrici del sistema infiammatorio e immunitario; due in particolare - l’interleuchina-1 (IL-1) e l’IL-6 - sono citochine proinfiammatorie e l’IL-1 induce la produzione di una buona parte dell’IL-6. È noto che alcuni anticorpi monoclonali diretti verso IL-1e IL-6 hanno cambiato la storia di alcune patologie infiammatorie (come la psoriasi e l’artrite reumatoide) ma hanno influito anche su alcune patologie CV: i pazienti con queste patologie quando trattati con anticopri mpnoclonali hanno presentato minor prevalenza di ictus e infarto rispetto a chi non era trattato. Questa evidenza tra le altre ha suggerito la correlazione tra infiammazione e rischio CV. Numerosi studi ormai dimostrano il ruolo delle citochine infiammatorie nel rischio CV nell’attivare le specie reattive all’ossigeno (ROS) andando a inglobare le LDL e formando la placca aterosclerotica; il burden delle citochine infiammatorie, cioè, porta all’accumulo e alla formazione della placca aterosclerotica. In particolare, l’IL-6 rappresenta un mediatore potente di malattie cardio-cerebrovascolari (England BR, et al. BMJ, 2018). Le LG ESC affermano che l’artrite reumatoide e altre patologie immunitarie incrementano il danno infiammatorio e il rischio cardiovascolare. In particolare, un paziente con artrite reumatoide ha un rischio quasi doppio (fattore moltiplicativo 1.5) di sviluppare un evento cardio-cerebrovascolare.
Quindi occorre considerare questi pazienti come possibili malati di cuore. I pazienti con artrite reumatoide hanno infatti un rischio di sviluppare scompenso cardiaco doppio rispetto a chi non ha questa patologia; per di più i pazienti con artrite reumatoide e scompenso cardiaco sviluppano la forma di scompenso cardiaco a frazione sistolica preservata, di difficile diagnosi. I pazienti con artrite reumatoide se indirizati al trattamento possono ridurre il rischio di andare incontro a malattia coronarica (Crowson CS, et al. Am Heart J, 2013). Il rischio CV dell’artrite reumatoide può essere distinto in malattia coronarica per fenomeni di aterosclerosi, e in malattia non ischemica (legata al processo infiammatorio senza formazione di placca) a carico del muscolo cardiaco: sono due distinti setting del paziente infiammatorio CV. Uno studio su ischemici e non ischemici (Mantel Ä, et al. J Am Coll Cardiol, 2017) ha evidenziato che il rischio di scompenso cardiaco aumentava fortemente dopo sviluppo di artrite reumatoide ed era associato con un’elevata attività di malattia.
Si è visto che i pazienti non ischemici con artrite reumatoide potevano manifestare scompenso cardiaco con funzione sistolica preservata, mentre i pazienti ischemici potevano andare incontro a CVD e scompenso cardiaco a funzione sistolica ridotta. Dunque, il ruolo dell’infiammazione sulla disfunzione cardiaca nella malattia reumatica è ben dimostrato. L’infiammazione inoltre, altera morfologia, struttura, funzione e presenza delle lipoproteine, alterando il normale effetto anti-aterogeno delle HDL e amplificando l’effetto pro-aterogeno (Lanchais K, et al. Nutrients, 2020). In generale il burden infiammatorio porta a un aumento di TNF-alfa, IL-6, Proteina C reattiva e LDL-C dando tossicità muscolare, burden CV e sindrome metabolica. In altre parole, l’infiammazione è in grado di modificare e peggiorare il profilo lipidico dei pazienti, come nel caso dell’artrite reumatoide e di tutte le patologie infiammatorie: la lipotossicità muscolare diminuisce la beta-ossidazione mentre aumentano i ceramidi, aumenta l’apoptosi delle cellule muscolari e viene alterato il signalling insulinico; contribuisce allo sviluppo di CVD e aterosclerosi dando disfunzione endoteliale e scompenso cardiaco con aumento di morbilità e mortalità; causano una sindrome metabolica con obesità sarcopenica, perdita dei muscoli, aumento dell’adiposità, resistenza insulinica e aumento del rischio CV. Inoltre, l’artrite reumatoide è frequentemente associata a ipertensione che aumenta il rischio CV in questi pazienti; anche l’uso di corticosteroidi fa aumentare l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone con ritenzione di liquidi e aumento della pressione arteriosa ma l’esercizio fisico regolare e il metotressato (farmaco-base per la cura dell’artrite reumatoide) possono proteggere dallo sviluppo e dalla progressione dell’ipertensione arteriosa mentre i corticosteroidi e gli inbitori delle Cox-2 possono aumentarne il rischio nei pazienti con artrite reumatoide (Hadwen B, et al. Autoimmun Rev, 2021). Quindi il messaggio è che i medici devono considerare questi parametri allo scopo di ottimizzare il trattamento dei pazienti affetti da artrite reumatoide.
Non tutti i farmaci sono uguali nel contrastare il processo infiammatorio e nel trattare il dolore nel paziente cardiopatico. In uno studio di coorte sul registro danese (Lindhardsen J, et al. BMJ, 2012) si è visto che nei pazienti con artrite reumatoide, in termini di burden aritmico, e in particolare di fibrillazione atriale, per ogni decade di età i pazienti con artrite reumatoide hanno una percentuale di fibrillazione atriale maggiore rispetto alla popolazione generale (40%). È ovvio che il processo infiammatorio possa stimolare cellule silenti a livello dell’atrio destro e delle vene polmonari che possono scatenare la fibrillazione atriale, ma il maggiore rischio (30%) riguarda anche l’ictus. La fibrillazione atriale va dunque indagata, specie quella parossistica nei giovani. Questo studio ha rappresentato una pietra miliare sul tema “cuore e pazienti con infiammazione”. Nel 2012, l’Heart Study Group svedese ha indagato come pazienti con età superiore a 18 anni che iniziavano la terapia anti-Tnf per artrite reumatoide si comportavano in termini di riduzione del rischio CV: ai follow-up di 1 e 2 anni vi era una buona risposta in termini di sindrome coronarica acuta nei trattati con anti-Tnf rispetto alla popolazione generale (Ljung L, et al. Ann Rheum Dis, 2016).
Le linee guida ESC dicono che, nell’ottica della prevenzione CV, la malattia infiammatoria aumenta il rischio CV sia a livello acuto che cronico. Le evidenze migliori per patologie croniche si trovano nell’artrite reumatoide, con aumento del rischio CV del 50% e con il trattamento della patologia che riduce drasticamente il rischio CV. In generale, con le malattie infiammatorie, soprattutto intestinali, vi è un aumento del 20% del rischio CV (classe di evidenza 2 A/B). È importante – in tema di cuore e infiammazione – non lavorare a ‘silos’ e occorre essere molto attenti nella profilazione del rischio. Secondo la Società Italiana di Reumatologia (SIR) la valutazione del rischio CV è raccomandata per i pazienti con artrite reumatoide almeno una volta ogni 5 anni. Quindi anche i reumatologi sottolineano il rischio CV, anche se forse la valutazione ogni 5 anni sembra non sufficiente.
Come già accennato, i modelli di previsione del rischio CV devono essere adattati ai pazienti con artrite reumatoide di un fattore di moltiplicazione di 1.5. In questi pazienti lo screening per la presenza di placche aterosclerotiche asintomatiche mediante ecocardiografia carotidea può essere considerato come parte della valutazione del rischio CV. Ciò oggi è possibile anche con sonde bluetooth collegate ad app smartphone, in modo non invasivo, diretto e immediato. Va ricordato che quando si trova una placca a livello carotideo spesso vi è anche una placca a livello dell’albero coronarico.
Quindi è importante che cardiologi, reumatologi, internisti e medici di medici di medicina generale imparino a valutare il danno CV o, come viene definito dagli ipertensivologi, il danno d’organo. Tale danno d’organo infiammatorio può essere visto attraverso un semplice doppler delle carotidi, verificando se c’è ispessimento a livello del bulbo, della biforcazione, nell’origine della carotide interna. Profilare il rischio CV del paziente non è però sufficiente: le LG della SIR (Parisi S, et al. Reumatismo, 2019) dicono che le raccomandazioni sullo stile di vita dovrebbero enfatizzare i benefici di una dieta sana, dell’esercizio fisico regolare e della cessazione dell’abitudine al fumo. Ai fini della gestione del rischio CV possono essere usati antipertensivi e statine, come nella popolazione generale, allo scopo di migliorare l’elasticità e la funzione endoteliale dei vasi. Utile a preservare la funzione endoteliale è anche l’uso di un ACE-inibitore o di un sartano o di un calcio-antagonista al di là dei valori pressori, così come il ricorso agli inbitori di PCSK9 che svolgono attività antinfiammatoria e di inibizione di placca. La prescrizione di FANS nei pazienti con artrite reumatoide, raccomandano infine le LG SIR, deve essere effettuata con opportuna cautela nei soggetti con rischio CV documentato o in presenza di fattori di rischio CV.
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