Per i Medici Cimo Fesmed le misure del Governo non garantiscano la salute degli operatori. Pamich (UNIDI): oggi raccogliamo i frutti del puntare sulla delocalizzazione e la produzione a basso costo
Emergenza nell’emergenza, quella della protezione degli operatori sanitari, e non solo, che stanno combattendo per garantire la salute e la sicurezza dei cittadini dal coronavirus, si chiama carenza di DPI, mascherine su tutti.
“In questi ultimi anni il mercato ha privilegiato i dispositivi monouso seguendo le logiche del costo basso che hanno spostato la produzione nei Paesi asiatici, ed oggi stiamo vivendo le conseguenze”, commenta la presidente UNIDI Gianna Pamich (nella foto).
Mentre tutto il mondo è alle prese con l’emergenza coronavirus, non solo la produzione di DPI monouso diventa insufficiente ma i Paesi produttori tendono a limitare l’esportazione conservandoli per le necessità interne. Il Governo ha cercato in questi giorni di emergenza di porvi un rimedio, modificando le regole per la produzione, indicando deroghe alle attuali norme che regolamentano la fabbricazione di questi dispositivi medici ed incentivando la produzione in Italia. Incentivi e deroghe che hanno portato molte aziende del settore tessile, della moda e perfino di altri comparti industriali, ad attivare linee di produzione di DPI, in particolare delle mascherine. E’ notizia di ieri della decisione di FCA (ex Fiat) di organizzare negli stabilimenti in Asia linee di produzione di mascherine.
In particolare il DPCM del 2 marzo scorso, all'articolo 34, conferisce la possibilità alla Protezione civile di acquistare mascherine chirurgiche e di usare anche mascherine prive del marchio CE previo ok dell'Istituto Superiore di Sanità. ISS che ha fornito indicazioni per la fabbricazione specificando che, in caso di disponibilità limitata di mascherine Ffp2 e Ffp3 con filtrante, "è possibile programmare l'uso della mascherina chirurgica o del filtrante per assistere pazienti Covid 19 raggruppati nella stessa stanza, purché la mascherina non sia danneggiata, contaminata o umida". Alle stesse condizioni, "i filtranti possono essere utilizzati per un tempo prolungato, fino a 4 ore al massimo". Sempre l'ISS esemplifica poi che la mascherina chirurgica può andare bene se si fa assistenza diretta ai pazienti Covid: se si portano i pasti, si prende la temperatura, etc. E può andar bene anche per eseguire il tampone se non ci sono mascherine con filtrante. Ma non va bene per le procedure che generano aerosol.
Norme che non considererebbero con adeguata attenzione la salute personale sanitario, estendendo l'uso di mascherine chirurgiche, senza filtrante, alle situazioni dove il rischio di contagio è elevato. Almeno secondo quanto evidenziano i medici ospedalieri del sindacato Cimo Fesmed che chiedono all'Istituto Superiore di Sanità di modificarle, e di cambiare la legge, e un intervento degli Ordini a tutela di tutti i medici italiani.
Anche il presidente UNIDI Gianna Pamich, condivide le preoccupazioni ed il fatto che consentire la produzione di DPI, in deroga alle normali norme, comporti possibili rischi per gli operatori.
Per il presidente UNIDI il problema è nelle tecniche di produzione delle mascherine, soprattutto dei macchinari e nei tessuti utilizzati. “Il rischio di affidare la produzione di DPI, mascherine ma anche sovra camici ed altro a tutto il comparto moda, è legato ai macchinari utilizzati abitualmente che non sono adatti a questa tipologia di dispositivo medico, ma anche ai tessuti utilizzati”, dice.
“Il tessuto deve garantire impermeabilità pur consentendo la respirazione. Se si pensa che teoricamente sarebbero necessari un milione di COVID19 per coprire un millimetro, si può comprendere come un tessuto normale non sia adeguato a prevenire il passaggio del virus. E’ pur vero che in assenza di altre protezioni anche una protezione parziale è utile, senza arrivare a casi come la proposta ricevuta di mascherine da un paese dell’Est Europa dove si può vedere a occhio nudo come la stessa sia assolutamente inadeguata”.
Presidente UNIDI che parla, ora, come titolare di una azienda (la Pastelli) che fino agli anni ‘90 produceva mascherine chirurgiche riutilizzabili, ma che poi ha abbandonato per l’ingresso massivo del monouso nel mercato. “Ci è stato ora richiesto di riprendere la produzione delle mascherine chirurgiche riutilizzabili, le nostre sono riutilizzabili dopo il passaggio in autoclave fino a 200 cicli e realizzate con tessuti specifici per dispostivi medici, prodotti in Italia. Riusciamo a realizzarne circa 3mila al giorno, abbiamo istituito un filtro per l’emergenza, dando priorità ai vari 118, a ospedali, a strutture per disabili etc. Le richieste sono innumerevoli e nei casi più gravi ed urgenti le abbiamo fornite in donazione”.
Se chiediamo al presidente Pamich se questa situazione consentirà, quando tutto sarà finito, di rivedere anche le politiche di approvvigionamento e produzione dei dispositivi medici, ci dice.
“Non lo so, credo che sia ancora troppo presto per parlare del dopo pandemia, certo è che le politiche che hanno in questi anni puntato a premiare la riduzione dei costi, la delocalizzazione, il prezzo prima della qualità, sembra stiano dimostrando di essere inadatte”.
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