L'uomo di Neanderthal, scomparso circa trentamila anni fa, è da sempre considerato come un carnivoro per via del gran numero di ossa animali ritrovate nei siti dei suoi insediamenti, a differenza dell'Homo sapiens descritto come onnivoro. Un dato, questo, che è stato considerato una concausa dell'estinzione del primo a favore dell'altro, ipotizzando che i Neanderthal non riuscissero ad assumere tante calorie come i Sapiens. Ma negli ultimi tempi si sta accumulando una serie di evidenze che indicano come la dieta dei Neanderthal includesse anche alimenti vegetali. Una prova inequivocabile di questo radicale cambiamento di prospettiva viene dall'analisi del tartaro condotto con le moderne tecnologie: già da alcuni anni si è accertato che tra i denti di questa specie umana sono rimasti intrappolati resti di diversi alimenti vegetali tra cui legumi, frumento e castagne e, inoltre, alcuni di questi alimenti venivano cotti. Ora un gruppo internazionale di esperti, infatti, ha ritrovato anche resti di specie vegetali con proprietà curative tra i denti dei Neanderthal vissuti nel sito di El Sidròn nella Spagna settentrionale (Hardy K et al Neanderthal medics? Evidence for food, cooking and medicinal plants entrapped in dental calculus Naturwissenschaften (2012) 99:617-626).
Il tartaro sfida il tempo
Le analisi, basate su gascromatografia e spettrometria di massa oltre all'estrazione dei microfossili vegetali, hanno rivelato l'inalazione di prodotti derivanti dalla combustione incompleta del legno, come il pirene e altri idrocarburi aromatici policiclici, fornendo così indiscutibili prove molecolari dell'uso del fuoco in casa Neanderthal, anche se si ritiene che la scoperta del fuoco per cuocere i cibi risalga a molto tempo prima.
Il ritrovamento del tartaro nei reperti fossili dei nostri antenati non è una novità: l'adesione ai denti di questo ingombrante sottoprodotto alimentare è così forte da sfidare il tempo. Il tartaro più antico, infatti, fu scoperto in una mandibola di un ominide ritrovata in Tanzania circa dieci anni fa e può vantare un'età di ben 1,8 milioni di anni. Nelle ricerche svolte negli ultimi decenni si è spesso preso in considerazione la presenza di microfossili vegetali nel tartaro e, in alcuni siti dell'America meridionale, biologi e archeologi hanno potuto dimostrare grazie ad essi che certe comunità praticavano l'agricoltura in modo stabile già intorno al 9000 a. C.
La ricerca
La ricerca descritta sulla rivista Naturwissenschaften è interessante perché rivela la regolare e non casuale componente vegetale della dieta, dimostrata dalla presenza di granuli di amido, anche se non è stato possibile identificare le piante di provenienza. La forma e le dimensioni dei granuli orientano, comunque, verso una fonte di tipo seme e non tubero e la loro sede all'interno del tartaro esclude una deposizione ambientale post-mortem. Inoltre, la spettrometria di massa ha fornito la certezza che questi alimenti venivano consumati previa cottura, dimostrando la presenza di granuli arrostiti. Viceversa, non sono state trovate tracce di steroidi o di molecole lipidiche o proteiche, come ci si dovrebbe aspettare in presenza di una dieta prevalentemente basata su cibi animali.
I risultati provenienti da El Sidròn sono interessanti anche per un altro motivo: essi documentano per la prima volta l'uso di piante medicinali in una comunità umana. Tra le molecole rimaste intrappolate nel tartaro , infatti, ve ne sono alcune come il camazulene, che è contenuto nella camomilla, una pianta usata ancora oggi in erboristeria per le sue proprietà antiflogistiche e sedative. La presenza di altri idrocarburi aromatici dimostra che questa antica comunità umana assumeva regolarmente anche l'achillea millefoglie, usata tutt'oggi per le proprietà antispasmodiche, cicatrizzanti e antiinfiammatorie.
Il consumo di piante
Il consumo di queste piante, oltre a una sorta di medicina primitiva, potrebbe avere anche un'altra spiegazione: essendo di gusto amaro, le molecole come il camazulene riducono lo stimolo dell'appetito e potrebbero essere state usate in periodi di scarsità di risorse.
L'uomo di Neanderthal si estese in zone climaticamente diverse, come l'Iraq e il Belgio, ma accomunate dalla presenza di vegetali commestibili o comunque utili per la sopravvivenza e, sulla base anche di quanto rivela il tartaro dei loro denti, si può ragionevolmente ipotizzare che essi possedessero una certa conoscenza delle proprietà delle piante. Anche se rimane tutto da scoprire il grado delle loro capacità di automedicazione e delle loro conoscenze botaniche, si può ritenere che i loro spostamenti seguissero la diffusione di alcune specie.
Cera una volta
E' un legame antico quanto l'uomo quello che lega le api con la cura dei denti: antichissime fonti documentali, come un papiro risalente al 1600 a. C., testimoniano l'uso del miele sia a scopo antidolorifico sia a scopo fissativo descrivendo misture di miele e altri elementi impiegate per consolidare denti mobili. Oggi la cera prodotta negli alveari è ancora una componente importante di alcune cere dentali e, alle fonti scritte, si è aggiunta pure una prova archeologica, rimasta nell'oblio per molti anni.
Il paesino di Lonche
Lonche è un paesino dell'Istria dove negli anni Trenta furono ritrovati diversi resti fossili tra cui una mandibola umana in una cavità carsica. Poco tempo fa un gruppo di ricercatori delle università di Trieste, Roma, Napoli e New South Wales ha riesaminato i resti e ha scoperto che uno dei canini presentava una cavità riempita con cera d'api.
(Bernardini F et al. Beeswax as Dental Filling on a Neolithic Human Tooth. PLoS ONE 2012; ( 7) 9: e44904-13)
Insieme con la misurazione del carbonio radioattivo, che fa risalire i resti al periodo compreso tra il 6660 e il 6400 a.C., questo dato sposta indietro di cinque millenni l'uso di un materiale da otturazione per le cure dentali. In precedenza, uno dei ricercatori, il biologo Alfredo Coppa, in un sito neolitico del Pakistan risalente circa alla stessa epoca, aveva contribuito alla scoperta delle prime cavità dentali create artificialmente ma prive di contenuto.
La mandibola
Per arrivare a questi risultati la mandibola dell'ignoto troglodita ha avuto l'onore di essere analizzata dal sincrotrone del Tomolab di Trieste, famoso centro internazionale di fisica teorica , dove è stata sottoposta a una microTC che ha rilevato una frattura verticale estesa dalle superfici linguale e vestibolare fino al tetto della camera pulpare. La stessa macchina ha dimostrato che il primitivo dentista era abilmente riuscito a inserire la cera d'api fino a un millimetro dentro la frattura, oltre a riempire un'area di usura occlusale che aveva già esposto la dentina. Un dato, questo, che la dice lunga sul lavoro a cui erano sottoposti i denti di quei pastori nomadi: l'età attribuita al titolare della mandibola, infatti, è compresa tra 24 e 30 anni.
Otturazione
Per la verità, quella dell'otturazione è solo la più probabile tra le ipotesi formulate per spiegare la presenza della cera. I ricercatori, infatti, scrivono che questa potrebbe essere stata applicata post-mortem, come parte di un rituale funebre. Di sicuro, in ogni caso, si trattava di un dente sintomatico, sensibile alla masticazione e alle variazioni di temperatura, che però non subì un'evoluzione sfavorevole, dato che l'osso periapicale ha mantenuto una struttura normale.
La scoperta del gruppo di Bernardini conferma l'antico legame dell'uomo con le api, testimoniato da una serie di reperti preistorici, come i "pellets" di propoli scoperti in Italia in siti risalenti al Paleolitico che, con ogni probabilità, venivano usati a scopo curativo.
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- Denti antichi che "parlano"
GdO 2012;12
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