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09 Febbraio 2020

La bandiera del compenso equo, delle presunte tutele per farsi belli, tanto poi ci sono le mancate deleghe ad insabbiare

di Norberto Maccagno


“Un segnale concreto dal Governo e dal Parlamento per risolvere l'annosa questione dell'equo compenso dei professionisti”. A chiederlo, a fine gennaio, è stata Confprofessioni annunciando un pressing su Palazzo Chigi per correggere la norma che ha introdotto il principio dell'equo compenso delle prestazioni professionali rese alla Pubblica Amministrazione.
In una nota, il presidente di Confprofessioni Gaetano Stella rilancia anche sull'urgenza di arrivare in tempi rapidi a una soluzione che “vieti il conferimento di incarichi professionali gratuiti o il cui compenso non sia commisurato a compenso equo”. 

Sullo stesso tema da ricordare che, qualche giorno fa, la Regione Lazio ha approvato una delibera che rende operative le norme previste dalla legge regionale n.6 del 2019 che tutela, appunto, le prestazioni professionali e che recepisce le direttive nazionali sull'equo compenso. 

Bene direte voi, ma tutto questo riguarda esclusivamente chi collabora con la Pubblica Amministrazione: ai professionisti che non ci lavorano, chi ci pensa

In realtà la questione dell’equo compenso è una battaglia che da anni le categorie dei liberi professionisti stanno combattendo o stando facendo finta di combattere, a seconda di come la si voglia guardare. 

Mi spiego. 

Vi ricorderete il Job Act degli autonomi (81/2017), Legge approvata dal Governo Renzi che insieme ad altre norme avrebbero dovuto dare più tutele all’oramai variegato mondo del lavoro autonomo, sul tema dei compensi minimi, del diritto a vedersi pagate le fatture in tempi certi e brevi (60 giorni), etc. 

Bene, ora facciamo un passo di lato e consideriamo, prima ci come tutelere gli autonomi, chi sono, oggi, gli autonomi.

Anche se li circoscrivessimo ai soli liberi professionisti iscritti ad un Albo, sarebbe comunque difficile raggrupparli in poche categorie con caratteristiche ed esigenze simili. Si va dal collaboratore dello studio di proprietà di un professionista, passando da quello che collabora con la Pubblica Amministrazione o grossi Enti, per finire allo stesso titolare dello studio. Se poi andiamo a cercare di analizzare più in generale gli autonomi, si parte dal precario per eccellenza, il rider che consegna il cibo a domicilio, e si arriva al notaio. 

Anche lo stesso odontoiatra è oggi, a differenza di ieri, difficile da considerare come professione dalle esigenze comuni in tema di tetele e rivendicaizoni: c’è il dentista che collabora qualche ora nello studio di un singolo dentista, quello che collabora con una Catena, in un poliambulatorio, il ricercatore universitario, fino ad arrivare al titolare di studio. E poi nel settore dentale ci sono gli igienisti dentali con partita iva, gli odontotecnici senza laboratorio, ma anche i consulenti dei depositi dentali neppure inquadrati come rappresentanti, etc. 

Un tempo “l’autonomo”, nel nostro Paese, era sinonimo di benestante con caratteristiche definite, ed il professionista iscritto ad un Albo ancora di più anche per via del ruolo di “vigilanza”per conto dello Stato su varie materie (si pensi ai notai ma anche agli stessi ingegneri, geometri, ai medici che certificano lo stato di malattia di un lavoratore etc). Oggi buona parte di chi lavora in proprio con partita iva, è di fatto un precario. 

La categoria degli autonomi è quindi un vero e proprio gruppo disomogeneo composto da consulenti, piccoli artigiani, prestatori di servizi, free-lance, e tutti spesso senza quasi nessuna tutela e protezione dal punto di vista di welfare, tutele previdenziali ma anche sindacali.

Una situazione degenerata perché si è permesso che il lavoratore autonomo, oggi, lo sia non per scelta ma per necessità, costretto per poter lavorare, perché preferito dalle aziende al più costoso e tutelato lavoratore dipendente.  

Con il Job Act degli autonomi si cercò di mettere un freno alla cosa, in particolare con l'art. 3. In realtà i primi paletti li mise il Ministro Fornero indicano quando una collaborazione si doveva considerare lavoro dipendente e non autonomo. Una Legge, quella del Job Act che introduce l’equo compenso, che nelle fasi iniziali di discussione ed impostazione, fu seguita con interesse anche dai singoli odontoiatri, fino a quando capirono che non avrebbe consentito l’introduzione di un “tariffario minimo delle prestazioni”. Peraltro nel Job Act è chiaramente indicato che in tema di equo compenso, la norma non può interessare il rapporto professionista cittadino. Ma non riguarderebbe neppure il rapporto tra professionista ed altro professionista, poteva diventare utile per aiutare i giovani dentisti collaboratori. Il Job Act si limitò a regolamentare il rapporto tra professionista e banche, assicurazioni e grandi enti. Quindi difficilmente applicabile anche alla realtà odontoiatrica, forse era stato più pensato per tutelare avvocati, commercialisti, achitetti, etc.. E su questo bisonga ricordare che al tempo, le Associaizoni odontoaitriche si batterono perchè la legge potesse dare più tutele ai dentisti collaboratori che collaborano negli studi tradizionali e nelle Catene. Peraltro il Job Act, portò novità anche ai dentisti, anche se alcune rimasero sulla carta, del perchè ne parliamo più avanti.

Volendola poi vedere da un punto di vista estremamente e magari anche eccessivamente critico, viene da pensare che questo liminte possa essere stato anche una scelta. Allargare le tutele previste dal Job Act a tutte le collaborazioni, avrebbe voluto dire imporre delle regole anche ai singoli studi professionali (avvocati, commercialisti, architetti, dentisti) che oggi si avvalgono di collaboratori a partita iva.

Peraltro, e non è la prima volta che lo sottolineo, i collaboratori non avendo una rappresentanza sindacale forte, non sono considerati nei tavoli di concertazione. Poi, le rappresentanze sindacali dei professionisti sono spesso dirette dai titolari di studio che certamente si preoccupano di avere tutele nel rapporto con i forti gruppi finanziari con cui collaborano (banche, assicurazioni, Pubblica Amministrazione), ma non sembrano molto impegnati a dare concrete tutele al collaboratore che hanno in studio. 

Ma questa è polemica presunta ma sopratutto ininfluente, la verità è che buona parte del Job Act era morto il giorno dopo essere stato approvato, e probabilmente lo sapeva già anche il Governo che lo ha votato, ed anche gli altri che si sono succeduti non hanno fatto nulla per rianimarlo.

Perché, in Italia, oramai sembra essere stato trovato il modo per riuscire a fare approvare una legge controversa in modo da poter dire “ecco avete visto che penso a voi”, pur sapendo che non diventerà mai operativa perché vincolata all’approvazione di leggi delega, che mai vedranno la luce. 

E’ andata così anche per il Job Act degli antonomi. Dopo tre anni dalla sua approvazione, le leggi delega che avrebbero dovuto dare piena operatività a molte delle norme contenute non sono mai state approvate, ma non sono neppure mai state scritte, facendo rimanere questa legge, come molte alte, una scatola vuota di principi, di buoni proposti, di illusioni da sbandierare.

E questo lo si poteva caprie anche fin da quando la legge fu scritta, e non tanto perché prevede che il compenso al collaboratore possa scendere sotto fino soglia del meno 30% dell’”equo compenso”, ma perché nessuno si è mai preoccupato di indicare quale fosse il compenso equo da corrispondere ad avvocati, architetti, commercialisti, odontoiatrii e perché no anche ai giornalisti free-lance.       

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