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26 Aprile 2010

È tempo di mettersi al timone per costruire il proprio futuro

di Norberto Maccagno


In un momento di crisi economica come questo, lo studio monoprofessionale sembra reggere meglio di altre soluzioni. Resta però da capire se questo modello potrà rivelarsi competitivo anche in una logica di lungo periodo. Per approfondire e comprendere come il mercato potrà condizionare l’evoluzione della professione odontoiatrica abbiamo girato l’interrogativo a Francesco Longo, direttore del Centro ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) dell’Università Bocconi di Milano.
Professor Longo, due anni fa, a Cernobbio, nel corso del Workshop economico organizzato dall’Andi, ipotizzava la fine dello studio monoprofessionale, indicando nelle aggregazioni e nelle grosse strutture i modelli gestionali del futuro. Dai dati Andi del 2009, presentati a marzo sempre a Cernobbio, a reggere meglio la crisi sembra essere stato invece proprio questa tipologia di studio.
Non sono un veggente e neppure faccio previsioni. Posso soltanto rilevare come, nel settore sanitario, il mercato si stia evolvendo e fornire spunti di riflessione ed elementi per compiere analisi mirate. Credo che il compito di oggi sia chiedersi quale professione si vuole lasciare ai nostri figli, alle generazioni future. Il futuro si imposta già da ora, ma i risultati potranno essere percepiti tra vent’anni. Troppo spesso si cercano soluzioni immediate, correndo dietro al momento presente, e si finisce per non programmare il futuro in modo consapevole. È ovvio che nel breve periodo il singolo professionista risente meno della crisi economica perché è più flessibile, si adatta meglio alla situazione dell’oggi. Ma quello stesso professionista, se cambia lo scenario e il mercato di riferimento, potrà davvero reggere ancora?
Quindi, è possibile intervenire sui cambiamenti in corso che riguardano il mercato odontoiatrico?
Gli scenari che verranno possono essere influenzati dalle strategie che tutto il comparto individuerà come possibili. Diventa quindi rilevante guardare e ipotizzare gli scenari a lungo termine per costruire la professione futura. Un futuro che, secondo le scelte fatte, può essere subito o meno.
Ritiene che il settore riuscirà a individuare un modello futuro che accontenti tutti i professionisti?
Indubbiamente le esigenze della professione sono molteplici. I giovani sono più disponibili verso i cambiamenti, mentre i professionisti con studi avviati vorrebbero cercare di mantenere l’attuale condizione il più a lungo possibile, in modo da arrivare alla pensione senza grossi stravolgimenti. È una delle scelte che il settore odontoiatrico è chiamato a fare.
Quali sono le direzioni verso cui si sta evolvendo il mercato della sanità privata?
Oggi in tutti i settori, anche in quelli artigianali, è in corso un processo di industrializzazione. La domanda che ci si pone spesso è se questo processo porterà benefici o problemi all’utente finale, con la considerazione che di per sé questa impostazione non modifica il servizio, mentre lo fa la gestione. Da qualche tempo nel nostro Paese è in corso un processo di “industrializzazione” anche nella sanità privata. Stanno nascendo grandi gruppi privati e negli ambiti dove questo fenomeno non si è ancora sviluppato i medici si stanno aggregando. All’estero il processo è in fase più avanzata: si veda per esempio la Germania o la Francia. Quello che occorre capire è fino a che punto questi cambiamenti penetreranno la sanità e se arriveranno a condizionarne la gestione.
E quali possono essere le risposte a questi interrogativi?
Non sono io a poter dare una risposta: devono essere gli operatori coinvolti a cercare di trovarle. Anche i dentisti non sono neutri rispetto all’incidenza e alla velocità del processo di cambiamento, ma, come dicevo, possono influenzare entrambe le variabili. Si tratta di capire se e con quale velocità l’odontoiatria si avvicinerà ai modelli industriali che sembrano guidare la sanità del futuro.
Ci può spiegare quali potrebbero essere questi modelli?
A fine esplicativo ne individuo tre, presenti in tre aree geografiche diverse: Usa, Francia e Italia. Negli Stati Uniti il più grande player del settore odontoiatrico è l’American Dental Partner, che fattura 278 milioni di dollari all’anno con 25 cliniche e cura un milione e 700 mila pazienti con 545 dentisti. Il modello francese è più vicino al nostro: le strutture più grandi fatturano 2-3 milioni di euro. In Italia le prime sedici strutture odontoiatriche sono società, ma non tutte di capitale; la maggior parte di queste fattura in media 2-3 milioni di euro l’anno, mentre i gruppi in testa vanno dai 15 milioni ai 5-6 milioni di euro. Si tenga conto che in sanità un fatturato di 15 milioni di euro è poca cosa: il solo San Raffaele di Milano fattura in un anno circa 500 milioni di euro per tutte le prestazioni sanitarie erogate. Poi si stanno affacciando sul mercato odontoiatrico nuovi modelli organizzativi, come il franchising: le 40 cliniche Vitaldent operanti sul territorio nazionale nel 2008 hanno fatturato circa 10 milioni di euro. Ma sappiamo che il mercato italiano è ancora in mano al dentista libero professionista. I dati delle Agenzie delle Entrate del 2007 indicano che le persone fisiche rappresentano l’86,4% e le società di capitale il 2,5%.
I suoi dati però mostrano che i gruppi finanziari investono su prestazioni rimborsate dal Ssn. Quindi il business è possibile solo se sovvenzionato dal pubblico.

È vero, ma solo in parte. Dipende infatti da quale dato consideriamo. Il mercato delle prestazioni sanitarie pagate direttamente dai cittadini vale 30-35 miliardi di euro: di questi 10-15 miliardi derivano da prestazioni odontoiatriche, il resto sono farmaci e visite ambulatoriali. Quindi in questo ambito della sanità, quello “out of pocket”, l’odontoiatria è molto appetibile. Anomalia tutta italiana è poi il fatto che quasi la totalità della spesa odontoiatrica è pagata dai cittadini di tasca propria, solo il 4% viene pagata attraverso polizze assicurative, mentre il 9% attraverso fondi e casse mutua. Questo deriva principalmente dal fatto che per i terzi paganti l’odontoiatria non conviene: il rischio è molto alto. In Italia l’odontoiatria è gestita con logiche di “riparazione”: vado dal dentista quando ho un problema, invece che puntare sulla prevenzione. Anche in questo caso la categoria dovrà chiedersi se sia meglio per il futuro della professione, ma soprattutto per i propri pazienti, favorire o ritardare la concentrazione dell’offerta, l’industrializzazione del settore. E qualora si andasse verso la prospettiva di non opporsi alla concentrazione, resta da capire chi si dovrà privilegiare in quanto imprenditore: le società di capitale, il franchising o le iniziative imprenditoriali dei dentisti. Tre forme imprenditoriali radicalmente diverse, che determineranno anche esiti diversi.
Però oggi il legislatore ha obbligato i gestori dei fondi a fornire anche prestazioni odontoiatriche.
Questo modificherà di certo la geometria degli attori e, nell’individuare il modello da sostenere, se ne dovrà tenere conto. Bisognerà anche vedere come queste norme verranno attuate soprattutto dai gestori dei fondi e a quali condizioni economiche. Ma anche su questo punto la categoria dovrà interrogarsi e decidere se subire l’evoluzione o condizionarla. Dovrà chiedersi se sia conveniente favorire o ritardare il più possibile lo sviluppo assicurativo e chi privilegiare come interlocutore (assicurazioni, casse, mutue).
Anche in questo caso non vuole indicare una possibile risposta?
Per rispondere alle mie domande e ipotizzare il futuro si deve tenere in considerazione un dato: la metà degli italiani non va dal dentista per ragioni economiche. La vera domanda è quindi qual è il meccanismo migliore per ampliare il mercato odontoiatrico; come è possibile cioè creare un modello sufficientemente razionale, economico ed equo che possa interessare il maggior numero di cittadini. Per cercare di far capire quanto gli scenari siano aperti a varie soluzioni le sottopongo un’ulteriore riflessione. Per favorire l’accesso di pazienti rendendo il sistema interessante per le assicurazioni, per i gestori dei fondi e per i dentisti non si potrebbe proporre di prendersi in carico il paziente sano e a fronte di un costo annuo seguirlo secondo un programma di prevenzione preciso e costante nel tempo? So bene che non è facile rispondere, ma penso che queste difficoltà facciano parte del fascino di occuparsi di politica di categoria, provando a costruire il futuro della propria professione.

GdO 2010;6

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