A riportare alla ribalta il tema dell’esposizione ai rischi biologici legati alla professione odontoiatrica è stata la recente notizia che i Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti hanno deciso di studiare un gruppo di decessi per fibrosi polmonare idiopatica rilevati in un centro di cura della Virginia, in relazione al dato che tra i 894 pazienti trattati nella struttura, nove erano dentisti o odontotecnici, una percentuale (1%) che secondo i ricercatori risulterebbe “23 volte più alta del previsto".
Se il dato dovesse essere confermato, c’è da chiedersi quanto sono sicuri per il dentista e il suo team, rispetto a un eventuale rischio biologico, gli studi odontoiatrici? E, se esistono strumenti per tutelare il paziente, quali accorgimenti possono essere messi in campo per proteggere anche il professionista?
Abbiamo girato le domande a Luigi Checchi (nella foto), professore all’Università di Bologna ed esperto sul tema. “Per chi opera sul paziente, sia esso odontoiatria o igienista, lo studio odontoiatrico può presentare una serie di rischi biologici, che derivano dal cosiddetto inquinamento indoor. L’utilizzo degli strumenti rotanti ed a ultrasuoni rimuove dal campo operatorio materiale solido, creando un aerosol infetto e contaminante. La composizione di questo aerosol è diversa a seconda delle caratteristiche microbiologiche della placca batterica del paziente in esame e della tipologia di intervento che viene effettuato. Laddove, per esempio, si proceda a una limatura del dente, verranno immessi nell’aria frammenti di smalto, metallo, dentina, assieme a batteri, virus e funghi. L’ambiente dello studio inoltre è confinato, utilizza aria condizionata e acqua, che sono ulteriori fonti di inquinamento. Va precisato poi che, se il macro-aerosol decade nelle 24 ore, le microparticelle, il micro-aerosol, rimane nell’ambiente per più di 24 ore, andandosi a sommare a quanto già presente nell’ambiente”.
In questo contesto, “il problema principale per il dentista è l’operare su pazienti dei quali non si conosce né il profilo microbiologico nè quello ematico”. Anche perché “l’anamnesi, per quanto indispensabile, serve in realtà per evitare rischi al paziente, ma non per prevenire quelli per l’operatore”. D’altra parte, “si tratta di una tematica particolarmente complessa in quanto risulta difficile trovare il nesso causale tra eventuale patologia riscontrata dall’operatore e le terapie e il contatto con i pazienti trattati. Il tempo di incubazione di una malattia non è mai breve e a distanza temporale diventa difficile ricostruirne la causa”.
C’è poi un ulteriore elemento: “nella mia Università abbiamo condotto studi sulla capacità filtrante delle mascherine odontoiatriche. In particolare, abbiamo confrontato le maschere chirurgiche, solitamente in uso nei nostri studi, con i dispositivi di protezione individuale. Quello che è emerso è che la mascherina chirurgica protegge, sì, il paziente dal dentista, ma non viceversa. Mentre a garantire sia l’operatore che il paziente sono solo i dispositivi di protezione individuale, che tuttavia non vengono utilizzati di frequente in studio perché la maggior parte degli odontoiatri è convinta che la protezione delle mascherine chirurgiche sia sufficiente”. Da notare inoltre che quello che veniva dichiarato come capacità filtrante dalle case produttrici non veniva confermato nel nostro studio.
Quali consigli allora per il dentista?
“Prima di qualsiasi procedura, è necessario abbassare la carica microbica della bocca del paziente , utilizzando antisettici, con sciacqui di clorexidina o gel. È necessario inoltre utilizzare sempre le protezioni individuali: il camice, il cappello, lo schermo e privilegiare i dispositivi di protezione individuale rispetto alle mascherine chirurgiche. E’ poi buona norma, prima di effettuare un intervento chirurgico, richiedere al paziente un profilo ematico e microbiologico. Non bisogna pensare che questa richiesta venga giudicata negativamente dal paziente, anzi reputo che al contrario possa essere apprezzata e valutata positivamente”.
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