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16 Giugno 2008

Blocco articolare dell'ATM. Trattamenti a confronto

di Cosma Capobianco


Ogni anno tra l’1 e il 3 per cento della popolazione è costretto a recarsi da uno specialista a causa di disturbi dell’articolazione temporomandibolare; di questi circa il 2 per cento riporta un blocco articolare dovuto alla dislocazione non riducibile del disco articolare.
Tale blocco può essere di gravità variabile fino all’impossibilità di aprire la bocca (blocco in chiusura o closed lock); per la maggior parte dei disturbi temporomandibolari (Dtm) vi è un generale accordo sul fatto che i trattamenti non chirurgici debbano essere quelli di prima scelta; per il blocco in chiusura, invece, alcuni autori segnalano la validità della terapia chirurgica. Mancano indicazioni chiare su quale dovrebbe essere il trattamento elettivo.
Nella letteratura disponibile si trovano tre studi comparativi: il primo non riporta differenze significative tra applicazione di ortotico, fisioterapia, artrocentesi e chirurgia artroscopica.
Il secondo non riscontra differenze tra i vari rimedi non chirurgici e il terzo indica come egualmente efficaci l’artrocentesi e la chirurgia artroscopica. Poco tempo fa sono stati pubblicati i risultati di uno studio clinico randomizzato, cioè con selezione casuale dei pazienti, (E.L. Schiffman et al. J Dent Res 86(1):58-63, 2007) che si è svolto tra il 1992 e il 2004 per iniziativa dell’Università del Minnesota. Tale  studio è il primo a essere basato su un numero di soggetti adeguatamente ampio (106) per offrire indicazioni valide clinicamente anche al di fuori del campione oggetto di indagine.
I partecipanti allo studio sono stati scelti in base a criteri diagnostici clinici confermati da risonanza magnetica e, nei casi chirurgici, dall’osservazione diretta.
Il primo dei 4 trattamenti messi a confronto era di tipo medico, basato solo su farmaci (metilprednisolone per sei giorni seguito da antiflogistico non steroideo per 3-6 settimane con analgesici e miorilassanti assumibili al bisogno) e consigli vari (programma di auto-aiuto domiciliare). Il secondo aggiungeva a tutto quanto sopra anche lo splint ortotico e la fisioterapia. Questa veniva eseguita prima con l’aiuto di un fisioterapista e poi a casa; inoltre, uno psicologo istruiva i pazienti su come eliminare le abitudini potenzialmente nocive per l’articolazione e provvedeva a rinforzare la loro collaborazione. I due trattamenti chirurgici erano l’artroscopia e l’artroplastica. La prima veniva effettuata in anestesia generale e consisteva nel lavaggio della camera articolare superiore, nell’eliminazione di eventuali aderenze e nell’iniezioneintracapsulare di betametasone.L’artroplastica, invece, consisteva in un intervento a cielo aperto in cui si tentava di rimettere in sede il disco e, in caso di impossibilità, lo si toglieva (discectomia). A entrambi i trattamenti seguivano l’applicazione di ortotico e le stesse cure previste per il secondo gruppo. In totale sono state eseguite 23 artroscopie e 21 artroplastiche. I parametri clinici presi come riferimento, oltre alla mobilità articolare, sono quelli elencati nel Craniomandibular Index (Cmi) e nel Symptom Severity Index (Ssi) secondo Fricton e Schiffman.
Il primo serve per valutare dolore e disfunzione articolare; il secondo è una serie di scale di autovalutazione del dolore e dei sintomi. Nella valutazione dei sintomi sono stati considerati anche gli eventuali fattori psicosomatici e lo stato socioeconomico. Nella popolazione generale il Cmi e il Ssi sono rispettivamente equivalenti a 0,10 e 0,03 mentre nel campione studiato erano di 0,45 e 0,62. La massima apertura orale registrata nel campione era di 29,1 mm, in linea con altri studi simili.
Dopo l’analisi statistica i risultati hanno mostrato che i quattro tipi di trattamento non si distinguevano per entità o inizio del miglioramento funzionale e sintomatico.
Nel complesso la ricerca svolta in Minnesota dimostra che è possibile aspettarsi in media un eguale miglioramento funzionale e sintomatico per tutti e quattro i tipi di trattamento esaminati. Non è risultato alcun beneficio supplementare dell’approccio chirurgico rispetto a quello puramente medico o a quello medico-riabilitativo. Pertanto, le implicazioni cliniche di questa ricerca sono che il blocco articolare va trattato in primis con un intervento puramente medico o medicoriabilitativo.
Purtroppo, nella ricerca di Schiffman non è stata presa in considerazione l’artrocentesi, dato che all’epoca in cui iniziò lo studio non era una procedura molto usata. Questa terapia, descritta da D. Nitzan in numerosi lavori dal 1991 al 2003, consiste nel lavaggio del comparto superiore dell’articolazione tramite due aghi da prelievo introdotti per via percutanea con 400-500 ml di soluzione fisiologica sterile. In letteratura esistono due studi che hanno confrontato l’artrocentesi con l’artroscopia nei casi di blocco articolare. I risultati dimostrano una riduzione del dolore di uguale entità, ma un maggiore aumento di mobilità articolare con l’artroscopia.

GdO 2008; 8

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