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29 Novembre 2010

2010, cento anni di ordine e trent’anni di odontoiatria

di Valerio Brucoli


Gli eventi celebrativi, soprattutto quelli che ricordano date importanti, si compongono solitamente di due momenti: uno più risonante, legato alla rievocazione di quanto è successo, alla storia trascorsa, a cosa e quanto quel momento rappresenti, e uno seguente, più riflessivo, in cui si ragiona sulle implicazioni e sulle eventuali conseguenze future. La fine del 2010, anno in cui gli odontoiatri hanno ricordato un trentennale del corso di laurea, da inquadrare nell’ambito dei festeggiamenti del centenario degli ordini dei medici, può essere il tempo di questo secondo momento. Un momento che ci può aiutare a capire come, di passaggio in passaggio, si è arrivati alla preoccupante situazione odierna: parlo della crisi dello studio monoprofessionale, di quella di un medico messo in conflitto con il proprio Codice deontologico, di una sanità in mano a società “commerciali” che utilizzano, senza regole, l’arma della pubblicità. La nuova professione di odontoiatra fu imposta all’Italia dalla Comunità europea solo dopo un lungo braccio di ferro. Uno dei motivi di quella resistenza era il timore che un approccio così settoriale alla medicina ne snaturasse i valori, visto che le nazioni da cui era stato importato proponevano modelli sanitari di tipo aziendalistico che aprivano al cosiddetto business della sanità. Parliamo di modelli centrati sulla fornitura di prestazioni non necessariamente eseguite da medici, la cui chiave di volta era la nascita di nuovi profili professionali meno costosi. Sappiamo che la creazione della neo figura dell’odontoiatra fu solo il primo tentativo, fallito (l’odontoiatria scelse di mantenersi legata ai principi del Codice deontologico medico e venne creato un Albo “ad hoc” nell’ambito dell’Ordine dei medici), di una marea montante che cercava una breccia nel muro per sbriciolarlo. E ci riuscì, tanto è vero che quel processo condizionato da logiche economiche avanzò trainato proprio dal moltiplicarsi delle cosiddette lauree brevi: ne contiamo al momento 22, ma ce ne sono altri che spingono, come l’ottico, il chiropratico, l’odontotecnico. Figure che hanno i loro autonomi spazi nell’ambito della filiera che porta a quel prodotto finito che è la prestazione, spazi a cui, al momento, manca solo il riconoscimento concettuale: ecco allora la proposta di sostituire l’atto medico con quello sanitario, per dare così la possibilità a figure non mediche di fare autonomamente diagnosi e terapia (succede già in qualche sperimentazione regionale, come il “see and treat” in Toscana).
Questo passaggio sancirebbe la trasformazione del medico in tecnico sanitario “magistrale”, con buona pace di codici deontologici, principi etici o richiami a “mission” varie per umanizzare un sistema che agonizza tra medicina difensiva, malasanità e aumento dei contenziosi. Eppure un esempio che dimostra la validità del modello basato sui tradizionali valori medici esiste ed è il nostro studio monoprofessionale. È una realtà in cui si è riusciti a coniugare, senza farle prevalere, le problematiche di una professione con spiccati elementi di imprenditorialità e la primaria necessità di tutela della salute, una realtà in cui concetti come rapporto di fiducia, libera scelta del medico curante, esercizio indipendente in scienza e coscienza continuano ad avere un significato. È una realtà costituita da un unico spazio rappresentato dal dentista attorniato da figure a cui “delega” delle competenze: se queste dovessero trasformarsi per legge in figure con “autonome” competenze (un esempio potrebbe essere la nostra assistente con specifiche mansioni per la sterilizzazione - non è una questione di preparazione o di capacità, ma di diversa organizzazione concettuale del sistema) la trasformazione del nostro studio in qualcos’altro, una sorta di struttura complessa descrivibile come somma di più spazi costituenti la suddetta filiera, sarebbe cosa fatta. La crisi però ha fatto capire che è difficile andare avanti senza valori etici e le riforme delle professioni e degli ordini attualmente in discussione aprono un piccolo spiraglio, riaffermando la validità dei valori tradizionali. Nella riforma delle professioni si parla, tra l’altro, di pubblicità, di conflitti di interessi, di società professionali.
È proprio guardando a questi tre argomenti che ci rendiamo conto di quale caos stia generando la doppia morale di riferirsi alle non-regole del libero mercato per i proprietari-imprenditori dei nuovi supermarket della salute e alle regole deontologiche per i responsabili sanitari. Questa è una figura che la legge impone come controllore di un sistema che riconosce teoricamente la validità del Codice deontologico, un sistema che però poi non mette il medico nelle condizioni di farlo rispettare. Parlo di contesti dove la tutela della salute è sostituita dal numero di prestazioni da erogare, dove la conduzione dell’attività sanitaria viene fatta da manager in “contrapposizione” con medici che devono decidere verso chi va il proprio obbligo primario, se al datore di lavoro o al paziente. Un conflitto d’interessi difficile da risolvere se si è ricattabili economicamente, soprattutto in un momento di crisi anche dovuta al fatto di aver favorito il nascere delle suddette strutture a discapito degli studi.
Scontate allora, in questa logica, certe pubblicità “commerciali” (l’informazione presuppone un altro tipo di coscienza sociale), la stessa che porta a erogare prestazioni “commerciali” (imponendo una certa tempistica o il materiale che costa meno, creando bisogni per vendere più prestazioni possibili anche se non sono indispensabili e così via) perché il punto di arrivo è sempre il profitto in quanto tale. E per raggiungerlo vale tutto, a cominciare dallo stiracchiare, forzare, mistificare il concetto di appropriatezza.
Appropriatezza significa infatti utilizzare le risorse in modo adeguato per assicurare a tutti un diritto e non utilizzare a tutto spiano l’aggressivo strumento del marketing moderno per promuovere prestazioni come fossero videogiochi o cosmetici. L’alibi è che la concorrenza, quella senza regole, abbatta i prezzi, quando oramai è chiaro che dà solo un grande potere economico a pochi individui più bravi di altri ad accaparrarsi le risorse. Un discorso che implica l’estensione alle società di quella regola chiara a ogni medico, soprattutto se libero professionista, che essere imprenditore è subordinato all’essere terapeuta. Una questione che rimanda alla governance medica del sistema, che non significa solo conoscenza delle problematiche ma soprattutto rispetto di quei principi deontologici che noi quest’anno ricordiamo festeggiando il centenario degli ordini.
* Autore del capitolo “Odontoiatria: la sfida dell’integrazione” del libro Fnomceo per i cent’anni dell’ordine

GdO 2010;16

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