Lo stato di salute della sanità pubblica non è certo dei migliori, a causa dei continui tagli diretti e di quelli legati al federalismo, che hanno portato a una riduzione o al peggioramento dei servizi sanitari pubblici. Conseguenza: i cittadini che possono, mettono mano al portafoglio e pagano direttamente medici, case di cura e farmaci; gli altri rinunciano a curarsi o si arrangiano come riescono: sottostando ai tempi di attesa, a volte anche oltre l'anno, delle Asl o rivolgendosi al low cost, che, proprio grazie a questa situazione, prolifica. Con una discriminante: la Regione di residenza.
A raccontare questa situazione è il rapporto "Quale sanità dopo i tagli? Quale futuro per le risorse in sanità?" elaborato dal Censis. Ci siamo fatti raccontare quale sia la situazione dal vicedirettore del Censis, Carla Collicelli, anche per capire se e come l'odontoia-tria sia coinvolta.
Dottoressa Collicelli, dal vostro rapporto emerge un quadro estremamente negativo, nel quale è difficile trovare delle positività.
È vero: forse per la prima volta, nel fotografare la situazione, siamo stati critici, ma questo rispecchia il contesto generale. Anche il nostro rapporto annuale, sulle condizioni dello stato sociale del nostro Paese, un tempo considerato un punto di riferimento molto positivo, è diventato invece negativo.
Ci sintetizza che cosa avete rilevato nella sanità e nell'odontoiatria?
Abbiamo cercato di mettere a fuoco le questioni della sostenibilità finanziaria della sanità, analizzando alcuni dettagli che, mi sembra, siano unici nel loro genere, come per esempio quello del low cost.
Siamo partiti, prima di tutto, con l'intento di mettere in evidenza l'impor-tanza economica che il settore salute ha nel nostro Paese.
Da questo punto di vista, la sanità italiana, tra costi diretti e indiretti, muove l'11,2% del Pil annuo.
Un settore che impiega tra indotto e servizi sanitari un milione e 568mila addetti e che di conseguenza va guardato con attenzione.
Poi, abbiamo cercato di mettere a fuoco gli esiti e gli effetti che le manovre economiche hanno avuto sul settore, partendo dalla considerazione oggettiva che la spesa sanitaria è cresciuta negli anni in maniera più consistente di quanto non sia cresciuto il Pil.
Questa situazione ovviamente non è sostenibile e la conseguenza è stata che il "Patto della salute 2013-2015", concordato tra Ministero e Regioni, ha previsto un forte rallentamento della crescita della spesa sanitaria, fino ad accumulare 17 miliardi di euro di disavanzo in tre anni rispetto all'ammontare delle risorse di cui le Regioni dicono di avere bisogno.
Tutti speriamo che con manovre e interventi vari si possa ridurre il gap tra quanto sono i bisogni e quanto sarà erogato perché, come sempre, gli effetti negativi ricadono, poi, sulle Regioni già in difficoltà dove i servizi sono stati tagliati e ridotti.
La qualità dei servizi
Ovviamente con una riduzione della spesa il rischio è che si riducano i servizi e la qualità degli stessi.
Non più di due mesi fa abbiamo condotto un'indagine chiedendo agli italiani un giudizio sul Servizio sanitario della propria Regione. La metà ha detto che è rimasto invariato, ma anche all'interno di questa fascia di cittadini emerge una forte criticità.
Analizzando il dato territorialmente abbiamo invece rilevato come Sud Italia e isole siano le zone dove i cittadini lamentano un peggioramento.
E il giudizio non è solo basato sull'erogazione dei servizi, ma anche sulla qualità delle prestazioni erogate.
Il gap tra i giudizi positivi e quelli negativi si è ulteriormente ampliato tra i cittadini che risiedono in Regioni con i conti in ordine e quelli nelle Regioni costrette a rispettare i piani di rientro, soprattutto quando abbiamo chiesto una considerazione sull'adeguatezza dei servizi sanitari rispetto alle esigenze.
Nelle Regioni in crisi c'è una perdita di fiducia da parte degli utenti nel Ssn.
La dimostrazione che l'ottimizzazione non porta dei benefici ai servizi, ma li peggiora?
Effettivamente è così. Quando abbiamo presentato i dati del Rapporto c'era anche il ministro della Salute, Renato Balduzzi, che ha detto che non dobbiamo chiamarli piani di rientro ma piani di riqualificazione. Magari, gli abbiamo risposto.
Certo che dovrebbero essere piani di riqualificazione, intesi come miglioramento della qualità dei servizi a fronte di un controllo dei costi, ma così non è. Nella maggior parte dei casi si guardano i costi e si taglia. Ma se per tagliare non si agisce con interventi mirati all'ottimizzazione del servizio, alla produttività, alla qualità, alla competenza, si riduce solo un servizio per il cittadino.
Riduzione dei servizi che hanno la conseguenza di aumentare la spesa diretta dei cittadini verso la salute.
Questo è un altro aspetto che abbiamo scandagliato nel rapporto. Analizzando i dati Istat, abbiamo messo in evidenza che a fronte di un contenimento della spesa pubblica c'è un aumento di quella privata. Nel 2010 la spesa privata per servizi sanitari ha superato i 30 miliardi, in prevalenza nel settore della farmaceutica che assorbe il 10,7% della spesa complessiva.
Se gli italiani sono costretti a spendere di tasca propria per le prestazioni che prima ottenevano dal Ssn, la conseguenza è che dovranno tagliare parte di quanto destinavano alle cure non coperte come la spesa odontoiatrica?
Le prestazioni odontoiatriche sono oggi ai primi posti della spesa privata diretta. Questo punto in particolare non è stato analizzato dalla nostra ricerca. Attraverso i dati che abbiamo raccolto in passato, indubbiamente, negli strati sociali particolarmente deboli, il rischio che si rinunci alle cure odontoiatriche, per dare la precedenza ad altre giudicate più importanti, è reale.
Ma la riduzione dei servizi non è l'unico aspetto da considerare: per capire la spesa out-pocket c'è anche il parametro dell'autoregolazione, ovvero della tendenza dei cittadini a gestire in proprio la salute, soprattutto per l'area dei piccoli malesseri, dei piccoli disturbi.
Qui in particolare la tendenza è già quella di uscire dal servizio pubblico, alimentando la spesa privata. E questo a prescindere dalla qualità dell'offerta pubblica. Si preferisce fare da sé, scegliere da chi andare o cosa fare. Questo anche perché si è convinti che in questo modo si fa prima a recuperare la funzionalità persa.
Il rischio di questo atteggiamento è che si alimenti un consumismo di salute, soprattutto per certe tipologie di farmaci, ma anche di prestazioni sanitarie considerate minori.
Chi ci guadagna?
E in questo campo low cost e social shopping ne approfittano?
Assolutamente; e questi due nuovi aspetti, che abbiamo per la prima volta analizzato nella nostra ricerca, toccano direttamente l'odontoiatria. Quello del low cost è un fenomeno che si è sviluppato in altri settori e ora sta interessando anche la sanità. Secondo Assolowcost, il mercato della sanità a basso prezzo vale 10 miliardi di euro all'anno e anche le offerte online seguono questo trend: negli ultimi anni quelle per la salute sono aumentate del 30%.
Un elemento cha ha dei lati positivi, come il risparmio, perché a volte sono proposte prestazioni di qualità a prezzi promozionali.
Certamente i rischi di trovarci di fronte a prestazioni scadenti e pericolose ci sono. Non è possibile che certe strutture propongano sempre prestazioni a tariffe ridottissime, senza ridurre la qualità delle stesse.
In questo campo i controlli sono praticamente nulli e per molte di queste offerte c'è anche il rischio che il cittadino sia indotto a un consumo eccessivo e ingiustificato di prestazioni sanitarie, provocando danni alla propria salute.
Avete valutato se il cittadino si orienta verso il low cost solo per le prestazioni giudicate minori?
Non abbiamo dati su questo, non abbiamo fatto specifiche ricerche. Stando ad altre indagini svolte nel passato, posso dire che vale quanto dicevo prima per i piccoli disturbi. Per questi, si cerca il servizio a basso costo, indipendentemente dalla qualificazione professionale di chi lo offre. Per le patologie più serie, la gente cambia registro, cambia l'approccio, cerca il centro specializzato e qualificato.
Sono due mondi separati, uno il mondo della sanità in senso proprio, quello delle malattie vere, l'altro il mondo del benessere allargato, dove rientrano alcune prestazioni odontoiatriche, come lo sbiancamento. Sono convinta che per le cure gli italiani non si rivolgano a Groupon, ma al dentista serio.
I fondi integrativi
Torniamo alla spesa per le prestazioni sanitarie e alla difficoltà di molti italiani di sostenerla. La sanità integrativa poteva essere un aiuto. L'impres-sione è che sia rimasta ancora una rivoluzione incompiuta?
Effettivamente mi sembra che la materia si sia un po' bloccata. Diciamo che si sta diffondendo autonomamente. Oggi sono 5,7 milioni gli italiani che aderiscono alle 2800 mutue sanitarie e le società di mutuo soccorso (fondi integrativi, casse e altro) concentrate più al Nord.
Una nostra indagine di qualche mese fa ha indicato che 3 milioni di italiani si dichiarano disponibili a sottoscrivere una mutua sanitaria integrativa, malgrado manchi un'adeguata informazione.
L'adesione ai fondi, oggi, è spontanea e si sta facendo troppo poco per sostenerla. Questo è un settore dove finiscono molte risorse che potrebbero essere utilizzate meglio.
Alcuni fondi, spinti dalle agevolazioni fiscali, si sono adeguati a fornire prestazioni integrative al Ssn mentre la maggior parte di quelli attivi sono ancora alternativi e offrono le stesse prestazioni, ma con tempi e servizi diversi.
Il lavoro da fare è verso i fondi che non duplicano i servizi del Ssn, ma diventano realmente un pilastro integrativo. In un momento di crisi i fondi possono essere una risorsa che andrebbe utilizzata e sostenuta meglio.
Leggi anche:
- Censis: la spesa per la salute grava sempre più sul cittadino
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GdO 2012;6:2-3
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