Il vero ascensore sociale della generazione di chi ha oggi 50-60 anni è stato quello del poter studiare ed ambire a stare meglio dei propri genitori, il proprio status sociale non era più un impedimento per conseguire il diploma (per chi è nato anni ’50-60) e poi per le generazioni successive la laurea.
Quello di poter far laureare i propri figli, oggi, sembra stia tornando ad essere una questione per “benestanti”. Certamente per un fattore economico: tasse universitarie, libri, viaggiare, studiare fuori dalla propria regione di residenza ha un costo che molte famiglie non riescono più a sostenere. Inoltre, oggi avere una laurea non è neppure più la garanzia di trovare facilmente un buon posto di lavoro, spesso neppure un posto di lavoro qualsiasi. E quindi oltre alle possibilità economiche, coloro che vedevano il pezzo di carta come lo strumento per lavorare si chiedono: ma ne vale ancora la pena studiare?
La risposta l’ha data il Magnifico rettore dell’Università di Trieste, l’odontoiatra prof. Roberto Di Lenarda inaugurando venerdì scorso l’anno accademico quando ha ricordato che “solo 12% di figli di genitori con licenza media raggiunge la laurea”, citando dati dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche. Citando i dati sotolinea come sia sbagliata la mentalità dello studiare con l’obiettivo del poter lavorare subito rispetto a quella che invece è la conoscenza, il continuare ad imparare ed adattarsi al cambiamento attraverso il sapere che consentirà ai nostri giovani di affrontare le sfide che un mondo del lavoro in continuo cambiamento, e con una durata temporale sempre più lunga, imporranno.
Sono andato a cercare i dati della ricerca citata dal prof. Di Lenarda.
Ricerca che ha preso in considerazione un campione di individui nati il 1977 e il 1986, dalla quale emerge che il 12% dei giovani ha probabilità di arrivare alla laurea se i genitori posseggono la licenza media, possibilità che scende al 6% se mamma e papà non hanno alcun titolo di studio. Se invece nella famiglia d’origine si è arrivati almeno al diploma, il 48% dei figli si è laureato, mentre la percentuale dei figli che ha i genitori laureati sale al 75%. Ho provato, per ovvi motivi legati all’area di competenza del giornale dove scrivo, a trovare analogie con quanto rilevato dalla ricerca ed il settore odontoiatrico.
Qualche dato lo avevamo portato nel 2019 riportando i dati di Almalaurea che evidenziava come i neo laureati in odontoiatria, il 59,1% ha almeno un genitore laureato (29,9% entrambi i genitori; 29,2% un solo genitore laureato), il 53,1% dichiara di appartenere ad una classe sociale elevata, il 21% classe media impiegatizia, il 14,7% classe media autonoma, 8,9% classe di lavoro esecutivo. Il neo laureato ha prevalentemente (90,8%) un diploma liceale (di questi 64,6% Scientifico, 22,3% Classico) con un voto medio di 84,9 centesimi, diploma conseguito nella stessa provincia dove ha conseguito la laurea (42,1%) o in quella limitrofa (23,8%) o nella stessa ripartizione geografica (20,4%).
Quindi sembrerebbe esserci anche nel settore la conferma di quanto emerge dalla ricerca INAPP.
Dal punto di vista della facilità di entrare nel mondo del lavoro, per tutte le lauree abilitanti che hanno come sbocco principale la libera professione, anche per quella in odontoiatria l’avere un parente titolare di studio aiuta parecchio.
Il 34% degli iscritti ad odontoiatria nel 2019, ha la possibilità di entrare nello studio di un familiare o di un parente. Il dato lo aveva rilevato Key-Stone attraverso un sondaggio realizzato per conto del Collegio dei Docenti sugli studenti iscritti ad odontoiatria negli atenei italiani, sondaggio presentato durante un evento organizzato da EDRA nell’ottobre 2019.
A questi aggiungerei i 380 italiani che si sono laureati all’estero e che hanno chiesto nel 2020 il riconoscimento del titolo per venire a lavorare in Italia presumibilmente nello studio di famiglia, visto che l’impegno economico per studiare in una università privata straniera è decisamente importante. E’ plausibile quindi ipotizzare che l’investimento necessario per fare studiare il figlio all’estero sia mirato a dare un futuro, anche, all’attività di famiglia e non certo per ambire a collaborare da precario in vari studi prima di ottenere quella competenza necessaria ad essere, poi, competitivo nel mondo del lavoro.
Ovviamente, il paragone con quanto dicevo all’inizio -sul fatto che oggi il potersi laureare rischia di tornare ad essere una disparità sociale- e l’odontoiatria è certamente “tirato”. Inoltre, avere la possibilità di lavorare nello studio di famiglia, sia per un dentista, un avvocato, un architetto o un ingegnere, non deve essere certo un aspetto negativo, è una legittima opportunità e non sempre facile da gestire.
C’è poi un altro aspetto che crea diseguaglianze il ruolo dell’Università e la capacità di formare professionisti preparati ad entrare nel mondo del lavoro. E questo non sempre avviene, creando ulteriori disparità tra chi è riuscito ad entrare in Atenei che formano ed altri che distribuiscono pezzi di carta. E nel caso della laurea in odontoiatria è una differenza da non trascurare, perché quel pezzo di carta è abilitante.
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